Sconosciuto nella preistoria, poco usato e a volte addirittura “innominato” nell’antichità (nella Bibbia, ad esempio, non compare mai), il blu è oggi l’unico colore che mette d’accordo tutti, indipendentemente da genere, età, latitudine e religione. Quante sfumature di blu esistono? Ovviamente innumerevoli. Ma le tonalità di blu che hanno avuto l’onore di avere un nome proprio sono molte di meno. Nel corso della storia sono state poche le tappe significative nella scoperta di nuove tinte. Tanto che dall’ultima — datata 2009 — a quella precedente sono passati quasi due secoli.
Di cosa parliamo quando parliamo di blu
In quanto percezione visiva in relazione diretta con la luce, il colore è quanto di più sfuggente esista. L’uomo, con il suo innato istinto per la catalogazione del mondo, ha da sempre tentato di “inscatolare” ed etichettare qualcosa che difficilmente si lascia afferrare. Oggi grazie alla chimica abbiamo a disposizione un numero di colori assai più vasto rispetto a quelli che si usavano nell’antichità. In passato, quindi, era assai difficile dare un nome a qualcosa che non si era ancora in grado di produrre. Da qui la relativa scarsità di tonalità con dei nomi propri, che invece hanno iniziato a diffondersi parallelamente alle conquiste della scienza.
Tra la fine del’700, e gli inizi dell’800, ad esempio, c’erano già molti colori che era possibile “chiamare” in maniera più o meno precisa.
Nel caso del blu, come già accennato, per secoli le tinte a disposizione sono state pochissime. Poi le cose hanno iniziato a cambiare nel XVIII secolo.
Oggi abbiamo a disposizione diversi sistemi di catalogazione, codici, tabelle, e interi scaffali di blu per pareti, blu per tele, blu per tessuti, blu per legno, blu plastica, smalti blu… E poi centinaia di nomi: blu petrolio, blu ceruleo, blu elettrico, blu navy, blu avio, senza dimenticare i nostri Ginepro e Anice.
Colore che dà fiducia, ispira solidità e calma — e per questo è usato nei logotipi di molte società — è regolarmente tra le tendenze cromatiche per moda e arredi e si presta a numerosi abbinamenti.
Di seguito vediamo i blu più famosi della storia.
Uno dei primi pigmenti sintetici: il blu egiziano
I chimici lo conoscono come tetrasilicato di rame e calcio ma ha moltissimi nomi: fritta blu, fritta d’Alessandria, blu pompeiano, lomentum, cuprorivaite. Il blu egiziano è considerato uno dei primi pigmenti sintetici.
Utilizzato da millenni, addirittura dall’Antico Egitto (da qui il nome), si pensa risalga attorno al 3.100 a.C.
Si preparava mescolando calcare e sabbia insieme a un minerale con presenze di rame (ad esempio la malachite o l’azzurrite). Il tutto veniva poi riscaldato ad alte temperature, producendo un materiale di un blu opaco dall’aspetto vetroso, che veniva successivamente schiacciato e usato con un legante come l’albume dell’uovo.
Fino al Medioevo venne usato in tutto il bacino del Mediterraneo. Solo di recente è stato scoperto che, una volta eccitato dalla luce, il pigmento emette radiazioni molto potenti vicine all’infrarosso, permettendo di rivelarne la presenza anche laddove il colore non è visibile.
Questo ha riacceso l’interesse degli scienziati, viste le sue molte potenzialità per impieghi tecnologici e industriali.
Dai colori di battaglia ai blue jeans: l’indaco
Ricavato dalla macerazione e dalle fermentazione di piante come la Indigofera tinctoria e il Guado, viene usato da migliaia di anni soprattutto per la tintura dei tessuti. In Europa era più diffuso il guado, che già Giulio Cesare citava nel suo De bello gallico, raccontando che i Britanni lo utilizzavano per tingersi il volto durante le battaglie e apparire più spaventosi.
Si credeva inoltre che fosse più efficace far macerare le foglie di guado nell’urina di uomini ubriachi.
L’indaco è anche il colore tipico della tunica dei Tuareg, oltre che quello dei jeans.
Oggi non viene più prodotto con i metodi tradizionali ma da un sostituto sintetico, inventato già nel 1880 dal chimico tedesco Adolf von Baeyer.
Quando Isaac Newton “decise” che i colori dello spettro luminoso erano sette, ne aggiunse due a quelli effettivamente distinguibili: erano l’indaco e l’arancione.
Una tonalità di blu dalla Mesoamerica: il blu Maya
Usato già più di 1.000 anni fa dall’antica civilità mesoamericana, ha la straordinaria capacità di resistere alle temperature estreme, ai solventi e al tempo. La sua ricetta è rimasta a lungo un mistero ed è stata scoperta solo alla fine degli anni ‘90 dallo storico e chimico messicano Constantino Reyes-Valerio.
Il pigmento è composto da un colorante indaco che deriva dalla pianta di Indigofera suffruticosa, meglio conosciuta come anile, combinato con un minerale argillosso, la palygorskite.
I Maya lo utilizzavano nelle opere d’arte ma anche nei sacrifici umani, dipingendo con questa tonalità di blu i corpi delle vittime.
Prezioso come l’oro: il blu oltremare
Ha origine dal lapislazzulo, la meravigliosa pietra blu che veniva usata già dagli Antichi Egizi. Per millenni, tuttavia, nessuno riuscì a produrne un pigmento. Il primo utilizzo conosciuto di una tinta risale agli affreschi buddisti del VI o VII secolo rinvenuti in Afghanistan. Proprio lì si trovavano le uniche miniere di lapislazzuli note nell’antichità. Per questo motivi i costi di produzione erano altissimi, quasi proibitivi, e il blu oltremare veniva usato dagli artisti con molta parsimonia, principalmente nelle opere sacre, e senza mai mescolarlo ad altre tinte (veniva ritenuto un sacrilegio).
Solo nei primi dell’800 due chimici — il francese Jean Baptiste Guimet e il tedesco Christian Gmelin — riuscirono a scoprire, ciascuno in maniera indipendente, un modo per produrre sinteticamente il blu oltremare. Ancora oggi la tinta si ottiene con il medesimo procedimento sviluppato due secoli fa.
Azzurrite: il surrogato del lapislazzulo
Si tratta di un minerale della famiglia dei carbonati che si trova in quantità assai superiore rispetto al ben più raro lapislazzulo. Nel Medioevo, dunque, fu l’unica alternativa economica al blu oltremare, sebbene non ne raggiungesse minimamente la profondità e l’intensità. Talvolta veniva adoperato per truffare ignari commercianti e artisti, che pensavano di acquistare lapislazzuli.
Purtroppo, però, il colore prodotto con l’azzurrite ha un grosso problema, che si è poi rivelato fatale negli affreschi. A contatto con l’aria, infatti, si polverizza. Ecco perché alcune opere di epoca medievale e rinascimentale sono giunte a noi con parti vuote o di altri colori lì dove c’era un bel blu.
Una tonalità di blu nata per caso: il blu di Prussia
Chimicamente noto come ferrocianuro ferrico, lo troviamo nei cataloghi come blu di Prussia, blu di Berlino o blu parigino.
La sua scoperta si deve a un errore. Attorno al 1706 il produttore tedesco di tinture Johann Jacob Diesbach stava lavorando alla produzione di un rosso. Una reazione tra gli “ingredienti” — il ferrocianuro di potassio e ioni di ferro — creò invece un blu, che da allora è uno dei più celebri e utilizzati.
Appena qualche anno dopo l’olandese Pieter van der Werff se ne servì per primo in un dipinto, La sepoltura di Cristo, e da allora sono innumerevoli gli usi, artistici e non. Qualche esempio: la tintura dei tessuti (il nome blu di Prussia viene da qui, essendo utilizzato per le uniformi dell’esercito prussiano); il processo di stampa detto cianotipia; la verifica della regolarità di una superficie (in questo caso viene chiamato blu degli ingegneri); la cura, in forma di pillola, contro l’avvelenamento da metalli.
Bellezza tossica: il blu cobalto
Conosciuto anche come alluminato di cobalto, blu di Dresda e blu di Thénard, era già usato in Cina fin dall’VIII secolo — sebbene in forma non pura — per la decorazione delle caratteristiche ceramiche bianche e blu, prodotte usando sali di cobalto.
Nel 1802 il chimico francese Louis Jacques Thénard riuscì a sintetizzarlo, lavorando ad alta temperatura monossido di cobalto e ossido di alluminio. Questo procedimento riuscì ad abbattere i costi di produzione e a rendere la tinta disponibile a tutti. Per tale motivo il blu cobalto fu molto usato dagli artisti dell’800. Ebbe un ruolo di primissimo piano nell’arte impressionista, ad esempio per alcuni dei capolavori di Monet, Renoir e van Gogh.
Si tratta di un pigmento tossico se ingerito o inalato.
Quando è l’artista a fare la tonalità di blu: la storia del blu di Klein
Ufficialmente conosciuto come International Klein Blue, è stato sviluppato nel 1954 da Édouard Adam per il grande artista francese Yves Klein.
Adam aveva una mesticheria a Parigi e Klein era uno dei suoi più affezionati clienti. «Veniva a comprare pigmenti e leganti vari, e consumava un’insolita quantità di pennelli e rulli per dipingere. Troppo impaziente, non si prendeva il tempo di pulirli. Glielo feci notare, ed è così che è iniziata la nostra relazione, anche grazie al nostro comune interesse per il judo» raccontò molti anni dopo il negoziante.
Un giorno Klein arrivò da Adam e chiese di mostrargli tutta la sua gamma di blu. Ne selezionò due, il blu di Prussia e il blu oltremare. Volle vederli alla luce del giorno e Adam prese una palettata di pigmento ciascuno, la mise su un foglio bianco e portò il tutto fuori dal negozio. Qualche giorno dopo Klein tornò. Aveva scelto il blu oltremare, ma voleva poterlo utilizzare nella sua forma più intensa — «la più perfetta espressione del blu».
Fu così che Adam, dopo numerosi esperimenti, ebbe l’idea di usare il pigmento asciutto con un acetato di vinile in soluzione alcolica, capace di mantenere il più possibile qualità e l’intensità del colore. Era nato il blu di Klein.
La più recente tonalità di blu, lo YInMn Blue, è stata scoperta per caso
Era il 2009 e nell’Università statale dell’Oregon, Stati Uniti, il docente di chimica Munirpallam Appadorai Subramanian, detto “Mas”, stava lavorando a una ricerca insieme al suo studente Andrew E. Smith. Subramanian aveva ricevuto un finanziamento nazionale per trovare nuovi materiali che potessero avere applicazioni nell’industria elettronica. Ciò che i due scoprirono fu invece un nuovo blu, il primo completamente nuovo dopo oltre 200 anni.
Portando a una temperatura di quasi 1.100 °C il triossido di manganese e gli ossidi di ittrio e indio, Smith ottenne infatti un composto che, pur non avendo le qualità desiderate per la ricerca, era di un blu brillante pressoché perfetto, capace di riflettere la radiazione infrarossa.
Accorgendosi delle potenzialità della scoperta, Subramanian e Smith brevettarono il loro pigmento, che prese l’impronunciabile nome di YInMn Blue (da ittrio, Y, indio, In e manganese, Mn).
A differenza di molti altri blu, lo YInMn non è tossico e soprattutto è chimicamente stabile, non si deteriora, non cambia se viene riscaldato o raffreddato, né se entra in contatto con acqua o sostanze acide. Inoltre impedisce alle superfici verniciate con questa sostanza di riscaldarsi con l’irraggiamento luminoso. Questo lo rende perfetto per rivestimenti ad alto risparmio energetico, per l’industria automobilistica e quella informatica, oltre che per il restauro delle opere d’arte.